Lo studio apre nuove prospettive nella stratificazione del rischio e nella prevenzione e terapia delle malattie neurodegenerative
Roma, 29/12/2025 – Non tutti i pazienti con disturbo cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI, una condizione intermedia tra il normale invecchiamento cerebrale e la demenza) sviluppano una demenza: alcuni, pur presentando numerosi fattori di rischio biologico e alterazioni di specifici biomarcatori, mostrano una sorprendente capacità di resistenza alla progressione della malattia.
Il dato emerso non rappresenta una novità assoluta ed è in linea con quanto confermato da un gruppo di ricercatori italiani che ha tuttavia sviluppato un approccio particolarmente innovativo. I risultati sono descritti nell’articolo “Electroencephalography-based signatures of cognitive resilience in individuals with stable mild cognitive impairment despite carrying a high-risk for dementia” pubblicato sulla prestigiosa rivista statunitense Alzheimer’s & Dementia.
Lo studio, il cui primo autore è Chiara Pappalettera ingegnere biomedico e ricercatrice dell’IRCCS San Raffaele di Roma, si inserisce nell’ambito del progetto INTERCEPTOR, un ampio programma di ricerca avviato nel 2018 e finanziato dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), dedicato all’identificazione precoce dei meccanismi che conducono allo sviluppo delle demenze.
“La ricerca” spiega il prof. Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto romano, responsabile di Interceptor e dello studio, “ha coinvolto 351 soggetti con disturbo cognitivo lieve, seguiti per tre anni”. Al momento dell’arruolamento i partecipanti sono stati sottoposti a una valutazione estremamente approfondita: biomarcatori liquorali e plasmatici (amiloide e tau), genetica (APOE), neuroimmagini (risonanza magnetica e PET), elettroencefalogramma con studio della connettività cerebrale, oltre a test neuropsicologici e valutazioni cliniche complete.
Al termine del follow-up circa un terzo dei pazienti ha sviluppato una forma di demenza, il 22% una forma clinicamente riconducibile alla malattia di Alzheimer. Una quota significativa di soggetti, oltre il 52% di quelli con 2 importanti biomarcatori di rischio alterati (il volume dell’ippocampo misurato con la risonanza e la PET), non ha tuttavia mostrato alcuna progressione verso la demenza al termine dei 3 anni di follow-up.
“È stato a questo punto che ci siamo posti la domanda cruciale”, prosegue Rossini, “come mai soggetti con disturbo cognitivo lieve, quindi già a rischio, e con biomarcatori alterati come la PET e la volumetria dell’ippocampo non sviluppano la malattia?”.
Per dare una prima risposta i ricercatori hanno confrontato l’elettroencefalogramma dei pazienti che hanno sviluppato demenza con quello dei soggetti rimasti clinicamente stabili, definiti “stabili resilienti”. L’analisi della connettività cerebrale (un metodo avanzatissimo di analisi del segnale elettroencefalografico) ha messo in evidenza pattern EEG distintivi nei soggetti resilienti.
“Abbiamo osservato una maggiore capacità di sincronizzazione e di connessione dei lobi frontali per specifici ritmi cerebrali, come se queste aree fossero fortemente interconnesse tra loro”, spiega Rossini, “inoltre abbiamo riscontrato differenze significative nel rapporto tra ritmo alfa e ritmo delta, in particolare a livello del lobo temporale destro. Il ritmo alfa è tipico del cervello vigile e rilassato, mentre il delta è più rappresentativo delle fasi di sonno profondo”.
Secondo i ricercatori, queste caratteristiche neurofisiologiche rappresentano veri e propri segni di resilienza cerebrale, meccanismi che consentono al cervello di compensare il danno potenziale associato ai fattori di rischio biologici, mantenendo più a lungo le funzioni cognitive.
“Lo studio dei fattori di resilienza rappresenta un approccio nuovo e strategico”, conclude Rossini, “non si tratta solo di ridurre il rischio, ma di identificare e potenziare ciò che rende il cervello capace di resistere. In futuro, questi meccanismi potrebbero diventare un target terapeutico, con l’obiettivo di rafforzare la resilienza cerebrale e preservare l’autonomia delle persone il più a lungo possibile”.
La ricerca propone così una nuova visione delle malattie neurodegenerative, non più considerate esclusivamente come l’esito inevitabile dell’accumulo di fattori di rischio, ma come il risultato di un equilibrio dinamico tra rischio e resilienza. Una prospettiva che apre la strada a nuovi strumenti diagnostici, a strategie di prevenzione più mirate e a percorsi di cura sempre più personalizzati.