“Un tetto segreto dove ricominciare. Le case rifugio (o case protette) non sono semplici alloggi: sono spazi di rinascita. Qui, donne e bambini trovano un luogo sicuro dove respirare, parlare, curare ferite invisibili. Gli indirizzi sono segreti, gli accessi controllati, e dietro ogni porta c’è un piccolo ecosistema di cura: psicologhe, assistenti sociali, avvocate, educatrici. In queste strutture si impara di nuovo a vivere: a sentirsi al sicuro, a fidarsi, a credere che il futuro non debba per forza somigliare al passato. Eppure per molte donne, questo rifugio resta solo un sogno. Secondo le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, infatti, ci dovrebbe essere una casa rifugio ogni 10mila abitanti. In Italia, invece, ce n’è una ogni 60.000. Significa che, in moltissime province, non esiste neanche un posto dove accogliere chi fugge dalla violenza. In alcune regioni del Sud o nelle aree rurali, la rete di protezione è quasi inesistente. La risposta è complessa ma chiara: mancano fondi, pianificazione e volontà politica. Le risorse pubbliche destinate ai centri antiviolenza arrivano spesso in ritardo, a volte dopo mesi. Molte strutture sopravvivono grazie a progetti temporanei o alla forza del volontariato. A questo si aggiunge una grande disomogeneità territoriale: alcune regioni hanno reti di accoglienza solide e coordinate, mentre altre si affidano a poche realtà locali, spesso isolate e fragili. E poi c’è il “dopo”: uscire da una casa rifugio significa affrontare un nuovo inizio. Cercare lavoro, una casa, una scuola per i figli. Ma senza politiche di reinserimento sociale e abitativo, molte donne rischiano di restare bloccate in un limbo, dove la libertà ha un prezzo troppo alto. Cosa possiamo fare per cambiare le cose? Garantire un posto sicuro a ogni donna non è un gesto di carità, ma un diritto umano. E per renderlo reale servono azioni concrete: Finanziamenti stabili e continuativi, che permettano alle strutture di lavorare senza paura di chiudere. Una rete nazionale coordinata, che assicuri standard minimi di accoglienza in ogni regione. Progetti di autonomia, con percorsi di formazione professionale, sostegni abitativi e incentivi all’assunzione per le donne in uscita dalla violenza. Un coinvolgimento più forte del privato sociale e delle imprese, per costruire alleanze tra pubblico e terzo settore. Ma serve anche – e soprattutto – un cambiamento culturale: riconoscere che la violenza di genere non è un fatto privato, ma un problema strutturale, che riguarda tutti”.
Così, in una nota, il portavoce nazionale di Accademia Iniziativa Comune e presidente della associazione Bandiera Bianca.