Roberto Bergamaschi, responsabile dell’Unità di Ricerca della Fondazione Mondino di Pavia, torna a occuparsi a tempo pieno dell’attività di ricerca.
“L’aumento della malattia è determinato dalla maggiore esposizione ai fattori di rischio”
Roberto Bergamaschi, responsabile dell’Unità di Ricerca Sclerosi Multipla della Fondazione Mondino di Pavia, torna a occuparsi a tempo pieno dell’attività di ricerca dopo aver ricoperto per quasi tre anni l’incarico di direttore scientifico dell’Istituto pavese (il mandato scade a fine febbraio). Fondazione Mondino è un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) la cui missione è svolgere attività di assistenza clinica e di ricerca, con l’obiettivo di tradurre i risultati della ricerca in modo traslazionale, cioè in applicazioni biomediche sia in campo diagnostico e terapeutico, sia in nuovi schemi di organizzazione e gestione dell’assistenza sanitaria. L’attività clinica principale è la diagnosi e il trattamento delle condizioni neurologiche dell’adulto, dell’infanzia e dell’adolescenza. Le attività scientifiche includono programmi di ricerca, sia preclinica, sia clinica, che sono in costante crescita, così come documentato dall’elevato Impact Factor (uno score che sintetizza l’impatto delle pubblicazioni scientifiche) e dalla capacità di attrarre finanziamenti ottenuti per progetti da parte di enti pubblici e privati italiani ed esteri.
Sul fronte della sclerosi multipla si mescolano tutti gli elementi, ed il risultato è un’attività che mediamente coinvolge circa millecinquecento pazienti all’anno, di cui la metà da fuori provincia di Pavia e un terzo da fuori regione.
Lo studio della sclerosi multipla, malattia infiammatoria e neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale, sta facendo significativi passi in avanti, ma si conosce ancora relativamente poco dei meccanismi alla base di questa patologia disimmune.
“La nostra attività di ricerca – spiega Roberto Bergamaschi – va proprio in questa direzione. Essendo la sclerosi multipla una malattia multifattoriale, l’approccio è molto diversificato. Esistono una possibile predisposizione genetica e l’esposizione in giovane età a infezioni virali, però da sole non sono sufficienti a sviluppare la patologia. Quelli che stanno emergendo in modo sempre più netto sono alcuni precisi fattori di rischio, oggi al centro di studi specifici circa il loro impatto sulla sclerosi multipla”.
Quali sono quelli su cui si concentra maggiormente la ricerca?
“I fattori ambientali e gli stili di vita, rispetto ai quali si stanno studiando possibili interazioni, nonché interventi di tipo ‘preventivo’. Alcuni di questi interventi sono possibili: limitare l’abitudine al fumo, modificare le abitudini alimentari riducendo l’assunzione di cibi pro – infiammatori (grassi animali, cibi processati industrialmente) a favore di cibi anti – infiammatori (frutta, verdura), incrementare l’attività fisica. Sono invece difficilmente attuabili altri interventi correttivi, in particolare limitare l’emissione di inquinanti atmosferici che si sono dimostrati fortemente correlati sia al rischio di ammalarsi di sclerosi multipla, sia al rischio di sviluppare una forma più grave di malattia. Esistono poi fattori specifici come gli ormoni sessuali femminili rispetto ai quali è stata riscontrata una forte relazione con la malattia”.
Qual è il ruolo del cibo, in soggetti già esposti a potenziali fattori di rischio?
“La cosiddetta “dieta occidentale”, particolarmente ricca di grassi animali e di alimenti processati industrialmente, con conservanti e sostanze chimiche che sono potenzialmente infiammatori e quindi possono favorire lo sviluppo e l’evoluzione sfavorevole della malattia. Soprattutto tra i giovani, chi è in sovrappeso rischia maggiormente di ammalarsi. Uno dei meccanismi attraverso i quali il tipo di dieta ‘pro – infiammatoria’ potrebbe favorire la malattia è l’induzione di cambiamenti quali / quantitativi del microbiota intestinale, causando un peggioramento e favorendo l’innescarsi di processi infiammatori pericolosi. L’attività fisica regolare resta un punto fermo, a tutte le età e condizioni fisiche. Va svolta, sempre”.
Per le terapie cosa riserva il futuro?
“Le terapie per la sclerosi multipla si sono sviluppate negli ultimi venticinque anni e oggi sono una quindicina quelle riconosciute come valide ed ampiamente utilizzate nella pratica clinica, grazie alla loro capacità di modificare favorevolmente l’andamento di malattia, riducendo il rischio di ricadute e rallentando la progressione della disabilità neurologica. Vanno però gestite da centri specializzati con le competenze necessarie per le scelte terapeutiche e con le capacità di assicurare il percorso globale di assistenza e monitoraggio del paziente. Inoltre, in Mondino stiamo partecipando a molti clinical trial (sono circa venti quelli attualmente in corso) che hanno l’obiettivo di verificare l’efficacia e la sicurezza delle nuove terapie. Sul fronte dello sviluppo dei medicinali stiamo assistendo a una riduzione importante dei tempi: una volta trascorrevano almeno sette anni dall’individuazione di una molecola all’utilizzo finale. Oggi i tempi si sono ridotti perché alcune terapie sono mutuate da ambiti patologici differenti dalla sclerosi multipla, come quello delle malattie reumatologiche. La novità terapeutica di maggiore impatto sarà sicuramente il trapianto di cellule staminali neurogene che sarà impiegato a breve nell’ambito di un clinical – trial di cui l’Istituto San Raffaele di Milano è capofila, e progetto che vede la partecipazione di altri quattro centri lombardi, tra i quali il Mondino”.
La sclerosi multipla è in aumento?
“Sì, purtroppo lo è. Come accade per tutte le malattie legate a disfunzioni del sistema immunitario, anche il numero di malati di sclerosi multipla è in aumento. Questo è sicuramente legato alla migliore capacità diagnostica grazie alla risonanza magnetica, ma è anche verosimilmente determinato dalla maggiore esposizione ai fattori di rischio dei quali abbiamo parlato. Fortunatamente la disponibilità di terapie sempre più innovative ed efficaci assicura comunque una qualità di vita dei pazienti molto migliore rispetto al passato”.